ISONZO FRONT, 25 NOVEMBRE 1915
IL 7° REGGIMENTO “KHEVENHÜLLER” SUL SAN MICHELE
Pomeriggio del 24 novembre del 1915, Monte San Michele. È in pieno corso la quarta battaglia dell’Isonzo. Obiettivo della IIIª Armata italiana del Duca d’Aosta è lo sfondamento del fronte meridionale per aprirsi la strada verso Trieste, il principale porto dell’Impero austroungarico.
La presa di Trieste sarebbe per l’Italia una vittoria epocale e per l’Austria un colpo mortale. Ma per riuscire a superare la munita prima linea austroungarica, che nel tratto meridionale va da Gorizia al mare, è necessario prendere uno dei pilastri di questa possente difesa che verte nel tratto terminale sul bastione del San Michele.
Si tratta di una linea di basse colline che si ergono rapidamente sul fiume Isonzo e sulla bassa pianura dominandola completamente. Dietro il San Michele inizia l’arido plateau carsico che vede, ad una ventina di chilometri, la seconda linea difensiva, l’ultima diga prima di Trieste, incentrata sulla “fortezza” Hermada.
Anche il San Michele è stato opportunamente fortificato dagli austroungarici e le sue quattro cime, costituiscono le cupole di una cittadella fatta di reticolati, trincee, gallerie scavate nella roccia, punti di osservazione, postazioni di artiglieria, nidi di mitragliatrici. Nelle prime tre battaglie dell’Isonzo qui i combattimenti sono stati violentissimi con migliaia di morti in entrambi gli schieramenti.
Ma l’esercito italiano non è riuscito a scardinare le linee difensive austroungariche che rimangono saldamente ancorate sulle quote predominanti. I reparti italiani si trovano così con le proprie trincee abbarbicate sui pendii scoscesi del Monte, a poche decine di metri dalla prima linea austroungarica soprastante e con alle spalle l’Isonzo: una posizione davvero scomoda.
I bagni di sangue delle battaglie precedenti, dove l’esercito italiano sul San Michele ha avuto perdite spaventose e triple rispetto agli austroungarici, non hanno ancora insegnato nulla agli “strateghi” italiani fautori della teoria dell’attacco frontale voluta dal “generalissimo” Cadorna, e così si continua con la stessa musica.
La prima fase dell’offensiva si esaurisce il 16 novembre dopo una settimana di intensi combattimenti. Bombardamenti a tappeto preventivi, e poi gli scontati attacchi delle masse di fanti spinti fin sotto i reticolati nemici spesso intatti e falciati dal fuoco incrociato delle mitragliatrici, della fucilieria e delle granate. Tutto inutile naturalmente. Ogni sfondamento frontale così fallisce diventando un massacro; come anche le manovre di aggiramento tentate nel settore più meridionale attaccando le postazioni austroungariche del Monte Sei Busi e dell’altopiano di Doberdò, solidamente tenute dalla 17ª divisione di fanteria e dalla 22ª Schützendivision.
Dopo una breve pausa di due giorni, dovuta al peggioramento delle condizioni atmosferiche e dalla necessità di ricostituire il fronte dell’attacco sostituendo i reparti “dissolti” nel calderone infernale del San Michele con truppe fresche, nuova carne da macello, pronte al massacro, Cadorna da il via alla seconda fase della battaglia. All’alba del 18, le batterie italiane scaricano sul S. Michele un fuoco tambureggiante come mai prima. Il San Michele è difeso a Nord dalla 6ª divisione di fanteria, a sud dalla 17ª divisione, e i suoi rilievi, nel versante nord, e la cima principale sono affidati alla 12ª brigata di fanteria con i battaglioni Feldjäger, n. 7, 8, 9 e il 7° reggimento di fanteria Kevhenhüller.
La devastazione è totale. I bombardamenti sconvolgono le trincee austroungariche escavando il terreno e riportando alla luce i corpi dei morti delle battaglie precedenti. Si vive e si muore in questo inferno di combattimenti continuati e reiterati per sei giorni consecutivi. Si scivola sul sangue di camerati e nemici, e ci si rotola nelle loro viscere fuoriuscite dai corpi dissacrati e dilaniati dalle granate.
Gli italiani sfondano in qualche punto e cercano di allargare la breccia penetrando di qualche centinaio di metri, ma vengono sempre respinti dai contrattacchi austroungarici che riconquistano le postazioni. Come a San Martino, dove nel pomeriggio del 23 novembre gli italiani penetrano nelle trincee sull’ala destra della 16ª brigata da montagna Landsturm. Ma il pronto intervento del I° battaglione del 7° reggimento guidato dal capitano Gawaloski blocca gli italiani.
Seppur con forze ridotte a metà battaglione, Gawaloski contrattacca senza indugi forze almeno dieci volte superiori riuscendo a resistere fino all’arrivo dei rinforzi del 17° reggimento Honvéd. Il giorno seguente la vecchia posizione difensiva di San Martino verrà completamente riconquistata. Del battaglione di Gawaloski rimarranno solo 80 uomini.
Il ruolo del 7° reggimento Kevhenhüller in questa battaglia è determinante. Sono un reparto d’elite che viene chiamato a coprire le falle pericolose che si aprono nella linea difensiva del San Michele. E così agli indomiti montanari carinziani spetta il compito di sventare il più pericoloso sfondamento effettuato dagli italiani in questa cruenta battaglia. Il 24 novembre sul versante nord del San Michele le truppe italiane riescono a conquistare quota 124 incuneandosi tra il 3° reggimento di fanteria Honvéd e un battaglione del 27° fanteria. La situazione è seria. La penetrazione potrebbe portare ad uno scardinamento della linea difensiva austroungarica e all’aggiramento di quota 275, cima principale del San Michele. Occorre reagire rapidamente per non consentire agli italiani di organizzarsi.
Il contrattacco viene affidato al III° battaglione del 7° reggimento Kevhenhüller comandato dal capitano Barger, e vi prendono parte la 9ª, la 10ª e la 11ª compagnie. Alle 23.30 la 9ª e la 10ª compagnia cominciano la marcia di avvicinamento verso il punto dell’attacco. In piena notte, nel buio totale, e mantenendo il massimo silenzio, gli uomini devono passare attraverso le trincee del 3° reggimento Honvéd. La manovra è difficile, ci si trova a 30 metri dalla linea italiana, bisogna evitare qualsiasi rumore inopportuno. I due chilometri vengono percorsi in tre ore e mezza. I reparti prendono ora contatto con gli uomini del 27° reggimento.
Per iniziare l’attacco si aspetta l’arrivo della 11a compagnia che rimarrà in copertura. Il nemico è a non più di 15 metri. Alle 4.30 scatta l’attacco della 9a compagnia guidata dal tenente Zigurnigg. Zigurnigg è alla testa dei suoi uomini, pistola in pugno. Parte all’assalto anche la 10a compagnia. I Kevhenhüller lanciano gragnuole di bombe a mano dentro le trincee nemiche, poi l’attacco all’arma bianca e il combattimento prosegue corpo a corpo. Gli italiani sono completamente sorpresi e si ritirano lasciando sul campo decine di morti e centinaia di prigionieri.
La trincea occupata poche ore prima dagli italiani, e che si inseriva come un cuneo nella linea austroungarica, è nuovamente saldamente nelle mani delle truppe imperiali. Il fronte viene così ristabilito ed è scongiurato un possibile aggiramento del baluardo del San Michele.
In venti giorni di combattimenti sul Monte San Michele, nel novembre del 1915, il K.u.K 7° reggimento di fanteria perde 980 uomini su un totale di 1.705. Una percentuale del 58% degli effettivi. Perdite spaventose, a testimonianza della permanenza continuata nei punti più caldi del fronte.
Il 9 dicembre il 7° reggimento Kevhenhüller dissanguatosi sul Monte San Michele viene trasferito per la ricostituzione in Austria dove rimarrà sul fronte carinziano fino all’ottobre del 1917, quando prenderà poi parte alla XIIª battaglia dell’Isonzo, quella della vittoria di Caporetto.
Tratto dal blog “Ambiente e Legalità” di Roberto Giurastante